Roma, sanpietrini addio

Sampietrino © ph Valentina Cinelli

di Filippo Ceccarelli
da La Repubblica del 02.09.05

Rivoluzione dopo cinque secoli
Inventati nel Cinquecento per far scivolare meglio le carrozze, i “serci” restano un simbolo. Critiche ma anche applausi per la conversione all’asfalto.

«Vecchia Roma sotto le stelle non sei più tu…» suona l’eterna canzone della sdolcinatezza capitolina. Ma stavolta non sbaglia: e infatti stanno togliendo i sanpietrini. Gli umili e gloriosi sassi grigi della città eterna, della città di Dio. I «serci».

I cantieri sono ormai aperti: drammatici si preannunciano i lavori. E struggenti. Da Le Monde al New York Times, i grandi giornali esteri levano al cielo di uno splendido settembre il loro rimpianto per quel manto di antica e fascinosa pavimentazione che d’ora in poi si negherà agli sguardi. Addio, addio.

I romani accolgono l’evento con il consueto, poetico garbo: «Poi – esordisce su un forum Internet Alessio Brugnoli – poi ci stanno ‘sti cazzi de sanpietrini». L’Urbe digitale reagisce con un misto di accorto scetticismo e sublime indifferenza: «E li mettono e li levano – continua Brugnoli – e li sistemano e li smontano, e li sbattono per fissarli e li sbattono per toglierli». È storia vecchia, come al solito, oleografia da cartolina: montagnette di fatidiche pietre sulla nuda terra, gli operai «serciaroli» che tirano carriole triangolari e maneggiano con perizia l’indispensabile arnese per l’interramento, detto «mazzapicchio». Però stavolta sembra che li tolgano sul serio, i sanpietrini. Al loro posto: «asfalto fonoassorbente».

Ma forse non si immagina quanti blog, quante chat, quante chiacchiere, più o meno irate e disinformate, ma anche incoraggianti, sulla rimozione veltroniana dei «serci». Si legge, online: «L’ultima cazzata di Uolter, il sindaco-velina della Roma da bere, è quella di voler togliere i sanpietrini. In testa glieli dovrebbero tirare». Però si legge anche: «Evviva, erano bboni pe’ le carrozze, ma mo’ c’avemo li motorini!». Le due ruote, e un po’ anche le quattro ruote, hanno un conto aperto con i sanpietrini.

In linea di massima gli utenti motorizzati li giudicano costosi, rumorosi, pericolosi, ragion per cui al partito conservatore si oppone un fronte che sul piano municipale non sarà necessariamente progressista, ma certo non ne può più dell’inesorabile «percorso tattile» cui è condannato a piazza Venezia, o via Cavour, o via Nazionale: buche, riccioli, avvallamenti, scivolamenti da pioggia, forcelle piegate, digestioni infelici, brutali massaggi alle reni, emorroidi fantozziane, fatali distorsioni. Perché poi Roma è sempre Roma, luogo felicemente ambiguo: con il che narra la leggenda paparazza che Anita Ekberg fu convinta a fare il bagno notturno nella fontana di Trevi dopo essere inciampata con i tacchi sui sanpietrini e allora, per via di quella storta, fece pluff, il fotografo fece click, e a Fellini venne l’idea prodigiosa.

Bene, non dovrebbe accadere più. O forse sì, perché in realtà l’amministrazione ha deciso di lasciare i preziosissimi «serci» nelle zone pedonali. Del resto stanno lì da cinquecento anni, circa. Ce li misero i papi, pare approfittando di una tassa sul meretricio. In sostanza erano i parenti evoluti dei sassi stradali degli antichi romani, che per primi impararono a scavarli in certe cave di origine vulcanica alle pendici dei Castelli. Quando queste cominciarono a scarseggiare, i sanpietrini autoctoni, che meglio di tutti facevano respirare il terreno, vennero integrati con mezze piramidi tronche in porfido alto atesino. In era di globalizzazione, Rutelli li fece arrivare addirittura dalla Cina. Anche allora ci furono mezze polemiche, entusiasmi e lamentazioni. Ma sempre troppo costavano, evidentemente, per non dire la fatica di spostarli quando si rompeva qualche tubo, cioè sempre.

Di qui la scelta. E i conseguenti sospetti sui «serci» rimossi. Che fine faranno? «Sicuramente – prosegue la maldicenza telematica – servono per la villa di qualche amico». Eppure non esistono (ancora) testimonianze in questo senso; giusto una battuta spiritosa dell’architetto Fuksas che riecheggiando una vecchia canzone sui palloncini, ha proposto un convegno dal titolo: «Dove vanno a finire i sanpietrini».

Prima o poi, comunque, occorrerà comunicarlo, dove vanno a finire: se non altro perché si tratta di elementi non solo del paesaggio, ma anche dell’immaginario. Tanto che a Roma «er Sercio» è soprannome umano, per quanto poco rassicurante: «Come “er Trucido” – si legge nei più aggiornati repertori di malandrinerie romanesche – ma più insensibile».

Sarebbe ingeneroso attribuirne la colpa ai sanpietrini. Dopo tutto, a loro modo, oltre che simboli, sono oggetti romantici, evocativi. La pittura e poi il cinema li adorano, da sempre considerandoli come un unico fondale perfetto, asciutto o bagnato che sia, per proiettarvi figure, ombre, sagome di corridori, assassini, donne formose, violinisti, ministri. A proposito: piazza Montecitorio è stata ripavimentata qualche anno fa con «serci» di forma un po’ leziosa, in verità, e incongrue stelline di ferro.

In passato si metteva nel conto anche la possibilità che nelle rivolte di piazza i manifestanti facessero più o meno quello che sta facendo ora il Comune, ma per scagliare i sanpietrini sulla Celere, allora priva di scudi. E «Sanpietrino» si chiamò con qualche dissennatezza, nel Settantasette, un giornale satirico di movimento. Eppure, se si allarga il tavolo della storia alla vita di tutti i giorni, la «serciata» è parte integrante, snodo privilegiato dell’antropologia romana, pure ricca di primordiali lapidazioni.

Ci sono in proposito scultoree stampe di Pinelli, piccoli eserciti in cilindro e camiciola, duelli di monticiani e trasteverini, e sullo sfondo le rovine. Ci sono magnifici sonetti di Belli, pura poesia di movimento plastico: «M’impostai cor un sercio e nun me mossi,/ je feci fa tre antri passi, e ar quarto/ lo presi in fronte, e je scrocchiorno l’ossi». Ci sono quadri e canzoni, persino al femminile: «Semo monticianelle e nun tremamo/ e lo spadino in testa lo tenemo,/ er cortelluccio in petto, er sercio in mano». Il sampietrino lanciato, il sanpietrino perso, il sanpietrino maledetto, il sanpietrino ritrovato.