Sampietrino mon amour

di Giulia Gambino – ph. Veronica Montefiori

Cammina, cammina, cammina, inciampa, cammina, inciampa. No, non è dei progressi di mio cugino di due anni che sto parlando, ma dell’invidiabile fiducia che quella sciancatissima signora ostenta indossando i tacchi a spillo a Piazza Navona. Riuscirà a tornare a casa con entrambe le caviglie? E un ortopedico bravo già lo conosce? Si perché, nonostante si dica che la più grande qualità dei romani sia l’indifferenza, noi dei sampietrini sconnessi ce ne accorgiamo eccome.

Tanto è vero che quando corri per prendere quel dannato 46 che passa ogni tre comete di Halley li senti benissimo mentre scompensano ogni osso tu abbia in corpo: ecco, generazioni di romani si sono lamentate di quei simpatici blocchetti di basolato mentre facevano la fila per comprarsi la borsa dell’acqua calda in farmacia. Pazzesco. Quasi romantico: siamo tutti una grande famiglia nel mal di schiena che ci accomuna. Non è stupendo da pensare? Quella sensazione di morte imminente ci rende Romani da più 400 anni.

Pare infatti che la brillante idea di giocare a Tetris con i ciottoli del manto stradale se la sia fatta venire Papa Sisto V, al secolo Felice Piergentile, perché voleva selciare la superficie di tutte le 120 strade percorribili dai carri. Era il 1585, e i lavori durarono fino al 1590. Ma che vuoi che siano cinque anni di fatica quando puoi rendere possibile la viabilità nella Città Eterna?

Anni dopo, un certo Guido Baldo Foglietta sentì il bisogno di contribuire alla Missione scrivendo un manuale, “Il discorso sul mattonato e selciato di Roma”, che nel 1600 ispirò la nascita di un vero e proprio lavoro, quello der serciarolo. I coraggiosi depositari di quest’arte erano perlopiù artigiani tanto forti da poter spaccare pietre e infinitamente precisi, giacché ogni sampietrino non poteva superare i dodici centimetri in larghezza e i diciassette in altezza; ogni blocchetto arrivava a pesare tre chili, e veniva squadrato a colpi di mazzabecco.

Alcuni di questi intrepidi lavoratori sono addirittura passati alla storia per la loro bravura: è il caso d’er Vaccaretto, capace di ricoprire fino a sessanta metri quadri in un solo giorno. Si, avete capito bene: nello stesso tempo che impieghi a scegliere la nuova serie da seguire su Netflix lui ti rendeva percorribili sessanta metri quadri da’a Magica. E di insospettabili storie sui più piccoli monumenti di Roma ce ne sarebbero, da tramandare! Vi potrei per esempio raccontare di come, nel 1940, Silvio Sensi rese il suolo di Piazza del Campidoglio un capolavoro col suo fiore di pietra, o di Piazza del Quirinale, che allo stesso modo, senza i sampietrini, non vanterebbe lo stesso appeal agli occhi dei wedding planner ma evito: credo che il messaggio sia stato recepito.

Ma vedete, proprio ieri mi è capitato di fare una lunga passeggiata che da Ponte Milvio mi ha portato al Teatro dell’Opera. Lasciate stare che se ci penso mi fanno ancora male i piedi – forse erano le Converse, in effetti -, non è di questo che voglio parlare, ma di cosa significhi percorrere le stesse strade sulle quali è stata scritta la storia di ciò che siamo: romani. Mentre l’imbrunire gli affidava i suoi riflessi perfetti, il serciato era ancora umido dall’ultima pioggia e l’odore che si alzava dal fiume lontano era salmastro e benevolo, e presto ho capito che proprio quello era il mio posto.

In quel momento, su quel lastricato simmetrico e allo stesso impossibile da superare indenni ho capito che era lì che dovevo essere. E mentre scrivo queste poche righe perdo l’equilibrio, perché l’autobus frena ed è troppo pieno per reggersi da qualche parte. Si aprono le portiere, spingo per uscire, metto un piede a terra. Capisco dove mi verrà la prossima vescica: finalmente sono a casa.