Contro le buche un rimedio antico: il sampietrino

di Mario Tozzi
La Stampa, 16 febbraio 2014


Anatomia e possibili soluzioni secondo il geologo Mario Tozzi. Il problema è come far respirare le vie urbane.

http-www-lastampa-it-2014-02-16-societa-contro-le-buche-un-rimedio-antico-il-sampietrino-my92pkiang23idtuuagi2o-pagina-html-20160927Si fa presto a dire buca, quando si percorrono le strade di Roma appena dopo le piogge torrenziali e l’alluvione del delta del Tevere. Ma a Roma una buca non è mai soltanto una buca, è sempre qualcosa di altro e di più: è uno squarcio stratigrafico, uno spaccato verticale di asfalti e lave, qualche volta un cratere, altre volte il riemergere di un’antica palude malamente bonificata.
In tutti i casi, le buche di Roma (ma il discorso vale per molte altre città d’Italia), sono finestre aperte sul sottosuolo e insieme categorie aristoteliche, oggetto di dialettica ed esercizio di logica politica e amministrativa della Polis.
L’anatomia di una buca della sede stradale romana non è semplice. Le tipologie sono decine, ma, paradossalmente, la città che ha portato le strade carrabili fino ai limiti del mondo, dove c’erano solo i tratturi e le mulattiere, presenta oggi un reticolo stradale che è paragonabile a quello di Mogadiscio dopo la stagione delle piogge.

La più comune buca romana ha dimensioni contenute e forma grossomodo circolare o ovale. Quest’ultimo tipo nasce da una fessura che diventa via preferenziale di infiltrazione delle acque di pioggia, che così possono scavare a un livello più profondo e scollare frammenti di asfalto che le autovetture provvederanno ad allontanare.
A quel punto la buca si rivela e accoglie altra acqua, approfondendo il suo livello di base fino a toccare i 40 centimetri e oltre. Un abisso per balestre e ammortizzatori, ma soprattutto per gli scooter dei cittadini, che sono quasi un milione (una cifra che nemmeno a Bangkok…) e che rischieranno di impiantarsi letteralmente sul posto.

Buche di quel tipo si allargano con le piogge e il traffico, e possono diventare coalescenti con altre fino a formare vere e proprie voragini, destinate a sprofondare se, per caso (e a Roma qualche volta è il caso), al di sotto arrivano a intersecare quel reticolo fitto di cunicoli e gallerie della città sotterranea.
Poi ci sono altre categorie, affrontate con fantasia e perizia dai romani in auto o in moto. Le buche longitudinali, che corrono per decine di metri parallelamente al marciapiede e prendono corpo di frattura geologica al contatto con le rotaie del tram: corridoi scivolosi da cui si può salvare solo Valentino Rossi.
Le buche trasversali sono, invece, la trappola perfetta, anche per i più accorti: attraversano inesorabilmente tutta la carreggiata e presentano uno scalino netto in entrata e in uscita, non il pendio dolce delle buche circolari che degrada fino al centro, come in un gorgo da cui, comunque, non si sfugge. A nulla vale ripavimentare in emergenza: le buche si ripropongono («ricicciano», si direbbe a Roma) esattamente negli stessi luoghi.

Lo spaccato di una buca presenta diversi strati: una prima pellicola di bitume, quella granulare che viene via subito, poi l’asfalto più compatto di base; qualche volta la massicciata o, più frequentemente, altri livelli di asfalto messi così, uno sull’altro senza una vera cura ingegneristica.
Per arrivare, sotto a tutto il resto, ai sampietrini (o sanpietrini, così chiamati perché messi in opera originariamente a piazza San Pietro) di Sisto V, piccole piramidi tronche grigie ricavate dalle lave dei Castelli Romani che una volta pavimentavano l’intera città.

I sampietrini erano una compagine elastica e coesa, e lo sarebbero ancora: primo, perché sono più densi di altre rocce, e sostengono molto bene il traffico carrabile, resistendo efficacemente all’usura per attrito radente, come quello degli pneumatici.
E secondo perché, fissati a mano su un substrato di sabbia compattata e senza leganti, permettevano alla pioggia di infiltrarsi lentamente in profondità, tornando ad alimentare la falda sotterranea e, in ultima analisi, il Tevere. Con i sampietrini la città respira e recupera il rapporto naturale con le sue acque. E il sampietrino è l’erede diretto di quel «basolo» dell’Impero che costruiva non solo l’«urbs» ma anche, e soprattutto, la «civitas».

Certo, sono rumorosi e scivolosi, ma non si usurano mai e, soprattutto, non producono buche. E, quanto a velocità, oggi a Roma quella veicolare media è di circa 12-14 chilometri orari, cioè la stessa del 1850, quando, però, c’erano solo carrozze o cavalli e non l’asfalto.
Sono molti i turisti che, guide «Lonely Planet» alla mano, fotografano le variegate buche di Roma, e, sospettando che siano opera di artisti di strada, ne portano a casa un ricordo particolare, come delle colonie feline o delle scritte sui monumenti. Sono ormai da decenni parte integrante del paesaggio urbano: le auto le attraversano con confidenziale lentezza, le moto le schivano abilmente, i bus le schiacciano nell’illusione di vincerle.

I cittadini le conoscono per nome e ne parlano quotidianamente, appena meno frequentemente del tempo e più ancora del derby. In un Paese che ha quasi il doppio di autoveicoli per chilometro lineare rispetto al resto d’Europa, e dove non si prestano le attenzioni di manutenzione che avevano i nostri antenati, non dovrebbe essere difficile capire perché si formano le buche.
Segnalarle come attrazione turistica, e magari classificarle per i posteri, sembra più facile che ristabilire condizioni decorose di circolazione.

[ via La Stampa ]